SPERIMENTAZIONE

Riabilitazione dopo un ictus:
nuove tecniche con i robot
per aiutare i pazienti

Sabato 30 luglio 2022 circa 7 minuti di lettura In deutscher Sprache
Olivier Lambercy con un dispositivo robotico per la riabilitazione delle dita (foto di Mafe Fernandez)
Olivier Lambercy con un dispositivo robotico per la riabilitazione delle dita (foto di Mafe Fernandez)

Continuano con buoni risultati alla Clinica Hildebrand di Brissago gli studi per recuperare l’uso delle mani tramite le attrezzature realizzate dall’ETH. In futuro i robot verranno portati a casa dei malati
di Valeria Camia

Un matrimonio perfetto e duraturo. Così si potrebbe definire – se ci è permessa la metafora – la collaborazione tra gli scienziati che lavorano presso il Rehabilitation Engineering Laboratory (Laboratorio di Ingegneria della Riabilitazione) del Politecnico di Zurigo (ETH) e la Clinica Hildebrand a Brissago, centro di riferimento per il Ticino nell’ambito della riabilitazione neurologica. I due istituti, infatti, da ormai più di una decina di anni sono partner e interagiscono con obiettivi condivisi e completandosi a vicenda, come ci ricorda il ricercatore Olivier Lambercy, direttore ad interim del Laboratorio di ingegneria della riabilitazione (che fa parte del Dipartimento di scienze e tecnologie della salute del Politecnico).

Alla Clinica Hildebrand, nell’ultimo decennio, quasi un centinaio di pazienti hanno preso parte al progetto pilota guidato dai ricercatori dell’ETH e volto a ripristinare o migliorare la funzionalità dell’uso delle mani, compromessa principalmente a seguito di malattie a carico del sistema nervoso centrale e periferico, come quelle causate da un ictus cerebrale e dalla malattia di Parkinson. La riabilitazione che questi pazienti seguono è lunga, richiede un impegno costante da parte di chi è colpito dai danni neurologici e, non da ultimo, necessita - ad oggi - di una presenza assidua del personale di cura. Cosa succederebbe, allora, se si potesse sostenere, con l’aiuto dei robot, il processo riabilitativo?

«Noi abbiamo le conoscenze scientifiche e tecniche – spiega Olivier Lambercy. – Siamo ingegneri specializzati nel campo delle biomedicine, scienziati computazionali e informatici. Studiamo l’applicazione della robotica, delle tecnologie dei sensori indossabili e della neuroimmagine non invasiva ai principi della neuroscienza. La nostra ricerca si propone di progettare sistemi e soluzioni per le scienze biomediche, quindi lavoriamo sia per promuovere il recupero sensomotorio di un paziente che ha subito una lesione neurologica, sia per sviluppare tecnologie “di assistenza”, ovvero che aiutino le persone a compensare i deficit rimanenti post-lesione».

Il team di Brissago, da parte sua, è costituito da medici, fisioterapisti, ergoterapisti, logopedisti, neuropsicologi, infermieri e assistenti di cura, le cui competenze sono cruciali e complementari per il lavoro dei ricercatori dell’ETH: insomma, i clinici sanno di che cosa necessitano i pazienti, e come reagisce il corpo umano, i tempi e il grado di recupero dei malati. «Insieme – continua Lambercy – lavoriamo per comprendere sempre meglio i meccanismi e il funzionamento del nostro organismo; per sviluppare strumenti capaci di tracciare e valutare i progressi riabilitativi; e per sostenere il recupero mettendo i pazienti nelle condizioni di allenare l’arto o gli arti colpiti con il supporto di una macchina. Non auspichiamo la sostituzione della figura del terapista con quella di un robot: la nostra ricerca mira a mettere il paziente nelle condizioni di beneficiare di sessioni aggiuntive di fisioterapia “in autonomia”, ovvero senza la presenza del terapista impegnato con altre persone ricoverate. Là dove il personale non può occuparsi di più pazienti alla volta, ecco che il robot può offrire un valido aiuto».

Pensiamoci un attimo: quanto è lunga la lista delle difficoltà alle quali andremmo incontro nella quotidianità senza la piena o parziale funzionalità delle mani, dalla cura personale (lavarsi, alimentarsi, vestirsi, ad esempio) o altrui, alle attività di piacere come il dipingere e il suonare uno strumento musicale, alle attività lavorative in genere? Con le mani esploriamo anche lo spazio e ci facciamo comprendere. Proprio questo ci fa capire come non basti programmare, per il paziente, un robot che potenzi il movimento di apertura o chiusura delle dita; non è sufficiente allenare tramite una macchina e con una serie di ripetizioni (come si fa quando si va in palestra, insomma) una parte del corpo per migliorarne un movimento tecnico. «La clinica - continua Lambercy - ci insegna che la mano deve essere riabilitata a compiti significativi, che non riguardano solo la funzione motoria ma anche la percezione sensoriale e la funzione cognitiva». E proprio per questo il laboratorio dell’ETH progetta e sviluppa la robotica richiedendo costanti e regolari feedback dal personale della Clinica Hildebrand sull’utilità e la non negatività dell’uso delle macchine.

Guarda la gallery Guarda la gallery Giada Devittori, dottoranda presso il Rehabilitation Engineering Laboratory dell’ETH
Foto di Mafe Fernandez Guarda la gallery (6 foto)

Tra gli scienziati che mantengono regolari contatti con i colleghi in campo clinico di Brissago e i pazienti (italofoni), c’è Giada Devittori, dottoranda presso il Rehabilitation Engineering Laboratory dell’ETH, la quale ci spiega come «un primo test clinico condotto su trentatré pazienti ha permesso di concludere che l’approccio riabilitativo tramite l’uso del robot da noi sviluppato equivale a quello fornito attraverso una terapia convenzionale. Non è per tanto né inutile, né peggiorativo delle condizioni del paziente, quando si confrontano i risultati che si ottengono tramite la riabilitazione svolta con il terapista. Detto diversamente, il robot porta a dei miglioramenti per il paziente, e questi miglioramenti sono equivalenti a quelli ottenuti con lo stesso tipo di terapia fatta in modo convenzionale». Allora, dal momento che i benefici sono gli stessi, perché allenarsi con il robot? Come precisa la ricercatrice, perché la macchina dà ai pazienti l’opportunità di allenarsi di più anche quando tutti i terapisti sono occupati, aumentando quindi la dose di terapia e forse migliorando il risultato finale.

Per quanto il numero (trentatré) possa sembrare piccolo, è invece sufficientemente rilevante nel nostro campo di applicazione – aggiunge Lambercy, che ricorda come attualmente sia in corso quello che in gergo tecnico si chiama “follow-up study” e prevede la verifica dell’usabilità della macchina. Quindi, alla luce dei dati che confermano la precisione e l’efficienza del robot, la domanda è se la macchina sia facile da usare.
Proprio Giada Devittori si sta occupando di questi aspetti: tra il laboratorio zurighese e la clinica di Brissago continua a raccogliere gli input e le osservazioni fornite dai terapisti e dai medici, e poi si confronta con i pazienti e cerca di risolvere le difficoltà che emergono nel relazionarsi con una macchina. 

Niente è lasciato al caso. Non solo perché ci sono procedure ben definite che vengono seguite quando si programma una macchina, ma anche perché si implementano nel robot esercizi neurocognitivi tipicamente usati nella terapia convenzionale. «Per noi è fondamentale anche che il robot sia “user friendly” (facile da usare) – spiega la ricercatrice. – Ho quindi seguito tredici pazienti dopo aver modificato il software del robot per renderlo più intuitivo, e ho verificato che la maggior parte di loro è stata in grado di utilizzare la macchina senza la presenza del terapista, il quale aveva comunque spiegato in precedenza ai pazienti stessi lo svolgimento dell’attività di riabilitazione. C’è stato chi si è mostrato inizialmente spaventato, soprattutto nel caso di una persona anziana, timorosa di non saper utilizzare in modo corretto il macchinario. Eppure - aggiunge Giada Devittori - posso dire che alla fine, dopo che abbiamo spiegato ai pazienti cosa fare con il robot, tutto è andato molto liscio. Fino a oggi abbiamo ricevuto risposte positive sulla usabilità».

Il passo finale sarà offrire al paziente di provare la macchina tra le mura domestiche. Non è fantascienza, ma la strada è ancora lunga. «Dal punto di vista “logistico”, oggi un paziente non può portarsi a casa il robot su cui si allena a Brissago, date le grandi dimensioni della macchina – sottolinea Devittori. – Costruito 14 anni fa, il robot è un primo prototipo, lungo ben due metri e alto uno! Però, già per la fine dell’anno prevediamo di sviluppare un robot molto più piccolo, maneggevole, dalle dimensioni domestiche». Un ulteriore aspetto a cui prestare attenzione, chiarisce Lambercy, è che il robot deve essere programmato per riconoscere, quanto più possibile, se il paziente sta svolgendo l’esercizio correttamente, se ci sono dei problemi di postura, se l’arto è sottoposto a uno sforzo eccessivo oppure no. Per fortuna, per far fronte ad alcune di queste problematiche il team dell’ETH, tramite algoritmi che si ispirano alle decisioni dei terapisti, sono già riusciti a implementare una serie di "formule" che permettono di valutare come i pazienti stanno usando la macchina o rispondono alle sue sollecitazioni. Se necessario, l’algoritmo suggerisce anche di fare delle pause...
I ricercatori dell’ETH sperano di poter cominciare presto la valutazione della versione portatile del robot nelle case dei pazienti, e continueranno a sviluppare questa tecnologia in stretta collaborazione con la Clinica Hildebrand di Brissago.