cultura e salute

Musica come cura, lezione 7
Steven Mithen: dai Neanderthal
a noi, suoni e ritmi nel DNA

Lunedì 5 dicembre 2022 circa 7 minuti di lettura In deutscher Sprache

di Valeria Camia

Immaginiamo per un attimo una tranquilla sera nell’Età della Pietra: attorno al fuoco, finito di mangiare, un uomo di Neanderthal è intento a sbattere due pietre l’una contro l’altra. Di lì a poco, altri raccolgono sassi, resti di ossa o schegge sparse non lontano, unendosi al ritmo. Qualcuno accompagna con il battito di mani e piedi. Altri si alzano e iniziano a muoversi seguendo i suoni dei compagni. Da uno a tanti, magari anche tutti: in un attimo gli individui del gruppo diventano un tutt’uno, in un vortice di emozioni condivise, paura, rabbia, gioia

Torniamo al presente e visualizziamo uno stadio di calcio qualsiasi, pensiamo a quei tantissimi tifosi che, ovunque e senza conoscersi personalmente, si muovono insieme e animano cori a sostegno della propria squadra: si sentono un’unità. Non c’è molta differenza tra passato remoto e presente. Da due milioni di anni ci relazioniamo con gli altri e occupiamo spazi seguendo ritmi, melodie, ripetizioni, armonie. Attraverso la musica percepiamo di “appartenere”, creiamo e rafforziamo relazioni di gruppo, sincronizziamo e armonizziamo stati d’animo, emozioni, azioni o sentimenti con gli altri.

Ma c’è di più secondo Steven Mithen, archeologo e professore all’Università di Reading (Gran Bretagna), uno dei pionieri dell’antropologia cognitiva, lo studio di fossili e dei reperti archeologici per capire come si è evoluta la mente umana. Ballare e muoversi allo stesso ritmo ci accompagnano dalla preistoria proprio perché, «la nostra evoluzione stessa come individui, che si sono costituiti in gruppi sociali coesi, è fondamentalmente legata alla musicalità», chiarisce l’esperto, che sarà a Lugano, lunedì 5 dicembre (ore 18 presso l’aula polivalente del Campus est di Viganello), per l’ultima lezione del corso Musica come cura organizzato dalla Facoltà di scienze biomediche dell’Università della Svizzera italiana (USI) in collaborazione con la Divisione Cultura della Città di Lugano, con la IBSA Foundation per la ricerca scientifica e con il Conservatorio della Svizzera italiana. Ritmo e melodie, insomma, non ci accompagnano solo nelle relazioni con un partner, vanno oltre i legami parentali e non si limitano a favorire la coesione di un gruppo o a riflettere influenze sociali. Mithen parla di musicalità come di un coevolved system for social bonding, una definizione difficile da rendere in italiano con poche parole e che si riferisce al fatto che la musicalità - che ha permesso di creare legami sociali su scala più ampia rispetto ad altri meccanismi di legame disponibili nelle società ancestrali dei primati - è stata «codificata all’interno del genoma umano nel corso della storia evolutiva della nostra specie». 

La musicalità dei nostri antenati, spiega Mithen, non è una speculazione ma una teoria le cui ipotesi si fondano su ricerche in diversi campi del sapere, da quello storico-archeologico a quello delle neuroscienze e della psicologia sociale: evidenze anatomiche dei resti umani e dei reperti fossili di cui disponiamo (che indicano, ad esempio, capacità di vocalizzazione tra ominidi prima dello sviluppo del linguaggio); studi sullo sviluppo infantile (in particolare del legame che si crea tra care-giver e bambino tramite canzoni e ninna nanna); scoperte in campo neuroscienfico (grazie alle quali possiamo “vedere” cosa succede nel nostro cervello quando ascoltiamo canzoni e melodie) e, non da ultimo, ricerche condotte sui primati. Tutto ciò permette di ipotizzare che «tra i nostri antenati la musicalità svolgesse un’importante funzione di comunicazione emotiva, favorendo non solo connessioni empatiche tra i membri dello stesso gruppo o della stessa famiglia, ma su ben più ampia scala». Non è che “prima” della musicalità, nei gruppi di ridotte dimensioni, non esistesse “l’appartenenza a un gruppo". Si pensi, ad esempio, a quanto accade tra gorilla e scimpanzé ancora oggi: essi vivono in gruppi con un numero di membri relativamente limitato e i loro legami sono creati per mezzo della pratica del grooming, una sorta di “spulciamento” che oltre a togliere pulci o sporcizia, serve appunto a costruire legami, fiducia e vicinanza tra soggetti. È probabile che lo si facesse anche tra gli umani primitivi. «Ma quando, nel paleolitico, i piccoli nuclei di ominidi hanno iniziato ad allargarsi, includendo più membri, le modalità di interazione di gruppo fino ad allora adottate sono divenute sempre più dispendiose (ad esempio in termini di tempo) ed è ipotizzabile che il grooming abbia lasciato posto alla musicalità», spiega il professore.

Ovviamente non è che i nostri antenati fossero, tutto d’un tratto, in grado di comporre melodie e musica intesa come canzoni, strumenti musicali, stili di danze e così via, che sono prodotti molto più tardi e specifici di diverse culture. «Quando parliamo di musicalità per l’Homo heidelbergensis, Uomo di Neanderthal e Sapiens, ci riferiamo all’insieme di quelle capacità biologiche sottostanti che hanno permesso di percepire e produrre suoni e toni musicali», precisa Mithen. E proprio tali capacità hanno aiutato la formazione di coalizioni e l’identificazione con il gruppo, legami che, dal canto loro, sono stati psicologicamente e biologicamente fondamentali per la sopravvivenza (ad esempio permettendo la possibilità di segnalare la presenza di predatori, permettendo coordinazione e cooperazione in attività legate all’allevamento, la cura dei figli, il foraggiamento, l’espansione e la difesa dei territori).

Poi è arrivato il linguaggio, circa centomila anni fa. Eppure  la musicalità è rimasta e ha continuato a esercitare la sua forza di coesione, specialmente in contesti di gruppi numerosi. «A differenza delle parole, che certamente servono per interagire con gli altri ed esprimere le proprie emozioni, la musica non richiede la conoscenza del linguaggio altrui e quindi», sottolinea Mithen, «permette di entrare in relazione con gli altri in modo molto più diretto, immediato e “vasto”». Il fare musica insieme, continua il professore, non riguarda la sfera della semantica (come ad esempio saper cosa vogliano dire le parole della canzone che si sta cantando) ma crea armonia tra individui, masse di individui addirittura, senza che ci sia un significato compreso da tutti i parlanti e in modo uguale. Come dimostrano diverse ricerche scientifiche, quando si canta o si balla insieme, crescono i livelli di ossitocina, i quali sono stati correlati a un aumento della genialità, dell’empatia, la fiducia e della cooperazione all’interno del gruppo, a prescindere dal linguaggio utilizzato dai membri.

Con riferimento alle neuroscienze, la collaborazione tra archeologi e neuroscienziati è auspicabile e la strada è ancora largamente da percorrere. La stessa ricerca di Mithen, ad esempio, si situa proprio tra passato remoto e le nuove frontiere (future) della scienza: «Sono interessato in particolare - spiega - a come comunicava l’Uomo di Neanderthal, del quale possiamo ipotizzare la capacità di ballare, muoversi con musicalità e di utilizzare alcune parole e forme di linguaggio, ma con quale dimestichezza? E che relazione intercorreva tra linguaggio e musicalità? La mia ricerca è volta a investigare in che modo il codice genetico dell’Uomo di Neanderthal, di cui noi siamo portatori solo per una minima parte, influenzi la genetica della nostra musicalità. Grazie alla scienza, possiamo disporre di frammenti di DNA dei nostri antenati che sono utili per fare luce su queste e altre domande».

Ma archeologia e neuroscienze non vanno a braccetto solo per la comprensione scientifica di come funzioniamo come individui, bensì anche per la gestione del nostro presente come società e la progettazione del nostro futuro insieme. Ecco perché, dopo sei lezioni dedicate alla forza curativa della musica e alla presentazione di diversi studi scientifici su come l’esperienza sonora possa essere una vera e propria terapia (utile, ad esempio, per ridurre lo stress e il dolore cronico, così come a potenziare le funzioni motorie e neurologiche), il corso Musica come cura si conclude con “un ritorno alle origini”. «Solo se riusciamo a dimostrare, studiando il passato, che la musicalità è davvero importante per la nostra salute, il nostro benessere, lo stare insieme e le relazioni sociali, siamo in grado di pensare al presente e di pianificare il futuro in modo da favorire la coesione sociale e i legame tra gruppi», conclude Mithen.